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“Due volti del West”

Tex e Magico Vento a Capalbio

Canyon, praterie, deserti, saloon: l’America vista attraverso foto e disegni

 

Anche Tex Willer arriva a Capalbio. Sarà infatti il mitico ranger del fumetto italiano il protagonista della mostra che si apre il 9 settembre prossimo nelle sale de “Il Frantoio” che quest’estate hanno già ospitato numerosi eventi.

La mostra, dal titolo “Tex e Magico Vento - due volti del West”, sarà visitabile (ingresso libero) fino al 24 di questo mese. Saranno esposte 43 tavole di fumetti accompagnate da foto dei paesaggi in esse rappresentati, scattate o raccolte dallo stesso Bonelli, padre di Tex, durante i suoi soggiorni americani. L’altra novità è la presenza di “Magico Vento”, figura molto meno conosciuta rispetto a Tex, e che al Frantoio avrà uno spazio tutto suo grazie alle 61 tavole originali disegnate dal creatore Gianfranco Manfredi.

Uno dei fattori del successo delle storie di Bonelli è dovuto anche dall' esotismo dell' ambiente e del paesaggio: canyon e praterie, deserti e saloon, tutti gli ingredienti base della mitologia western che i visitatori potranno ritrovare, e confrontare, sia nei disegni che nelle foto esposte.

Ed è proprio in questo stesso scenario che si muovono sia Tex, l'eroe giusto, ribelle ad ogni forma di angheria;  che l' altro grande eroe buono Magico Vento, quello che i Sioux chiamano Uomo Strano, cioè non soltanto un uomo della medicina ma un guerriero con il “dono della visione” e capacità che vanno al di là della normale ritualità indiana. Magico Vento sfugge a ogni regola e da lui ci si può aspettare di tutto, anche avventure ai confini della realtà animate da fantasmi e da manifestazioni soprannaturali. Il tutto in una terra, il West, che da sempre regno dell' ignoto, terra di miraggi e apparizioni.

L’iniziativa, a cura dell’Associazione culturale “Il Frantoio” prevede per il giorno dell’inaugurazione, il 9 settembre,  anche l’animazione di Larry DJ, con una scelta musicale (il genere rock) come ulteriore omaggio al “nuovo mondo americano” che

tanto ancora affascina e incuriosisce.

L' evento sarà accompagnato dalla pubblicazione di una edizione de “I quaderni del Frantoio” dedicata al fumetto, che raccoglie interventi di Philippe Daverio, Daniele Protti, Gianni Perrelli  e Francesco d' Ayala.Tutti appassionati, da sempre, delle avventure degli eroi di Bonelli.

Il mito è mito. C’è ben poco da fare, ma molto da dire! Da dire a proposito del suo sorgere, del meccanismo che lo plasma e che, una volta inventatolo, scompare allo sguardo. Le sirene, fra Scilla e Cariddi, sono una realtà talmente certa del nostro mito che ancora oggi, spesso all’alba, i pescatori di pesce spada sullo stretto di Messina le sentono. Alcuni pretendono addirittura averle viste e altri, ma qui probabilmente si tratta di mitomani, lasciano intendere che con esse hanno avuto un rapporto più stretto ancora dello stretto, e cioè carnale. Eppure le sirene non si sarebbero incise nella nostra coscienza senza il racconto di Ulisse. E Ulisse si sa che è effettivamente esistito, lo provano le migliaia di fotografie che lo ritraggono, ma di queste fotografie mentali non sapremmo nulla senza il poema di Omero. In realtà è lui, il grande Epico, che fa ancora oggi sognare i pescatori di Messina e i liceali di Melbourne. Ed è in fondo andata così molto sovente, la questione. I cowboys della Grande Prateria sarebbero rimasti dei banali contadini armati e avidi, amburghesi o svedesi, olezzanti e miserabili, se il grande pittore americano Frederick Remington non ne avesse inventato l’epos, il loro e al contempo quello dei pellerossa. Il che permise la nascita del western cinematografico, essendo il gusto del movimento equestre già disegnato assieme ai costumi, sostanzialmente improbabili se rapportati alla povertà dell’ epoca. Vi sono quindi due origini ben diverse del mito, da un lato quella che viene rapportata dagli antropologi quando lo fanno sorgere nella notte del tempo tribale attorno ai fuochi dove si radunano gli anziani o gli stregoni, dall’altro, quando le tribù si civilizzano a tal punto da perdere la voglia dell’invenzione arcana perché preferiscono arti e mestieri, quello che crea l’artista e che si àncora sulla coscienza di queste tribù ormai in altre faccende affaccendate. L’opificio del mito, che è una versione intellettuale della bottega del mago, rientra in questa categoria. Ed è esattamente ciò che fu inventato nel secolo scorso da Giovanni Luigi Bonelli e sviluppato da suo figlio Sergio. Trattasi d’una casa editrice sorta dalla genialità immaginifica che lega sceneggiature e progetto, regia e ritmo di montaggio esattamente come nel mondo affascinante del cinema, solo che qui la cosa avveniva sulla carta stampata dei fumetti. In questa culla nacque un mito, A.D. 1948, anzi “il” mito di Tex Willer, il cowboy più cowboy d’ogni cowboy americano, perché ancora più lontano dalla prateria, quindi molto più suscettibile di contenere valori trasversali della fantasia, e perciò veri. Un cowboy di Milano. Forse solo nel cinema di Sergio Leone, vent’anni dopo, avvenne un miracolo similare, quello del cowboy romano. La penisola aveva dato un contributo fenomenale alla mitomania del mondo. D’altronde, qui, di miti se ne sono inventati tanti, da tre millenni addirittura, e siamo pronti a non fermarci. Non è in fondo un piccolo mito anche il caso Capalbio? (Philippe Daverio)

In principio fu Tex. Mio padre possedeva la collezione completa. Un giorno, con un amico, ci mettemmo a contare quanti nemici aveva spedito Tex al Creatore nelle sue avventure. Arrivati ad una cifra superiore a cinquecento, solo nei primi dieci numeri del fumetto, smettemmo. Dopo questo conteggio, macabro come qualche volta si può essere a quell’età, avevamo solo dieci anni, incominciammo a leggere veramente le avventure del Ranger e dei suoi Pards. Improvvisamente tutto il mondo mitico della Frontiera fatto di saloon, accampamenti, indiani, giacche azzurre, colt , winchester e stregoni cominciò a far parte del mio immaginario quotidiano. L’appuntamento con l’edicola divenne immancabile e fra gli sbuffi del padre che non trovava il giornaletto, perché spesso nascosto da qualche parte per finirlo in pace, continuavano le avventure. Giù lungo il Mississipi sui battelli con le grandi ruote alla caccia di Mephisto e di suo figlio Diablero, a cavallo nelle praterie insieme a Kit Karson con la sua voglia “una grande bistecca con una montagna di patate fritte, innaffiata da una gigantesca birra gelata”. I silenzi, interrotti da poche frasi lapidarie, di Tiger Jack, il navajo svelto di coltello, rude balia asciutta del giovane Kit, figlio di Tex. La magia coniugata con l’avventura e la morte, quella dei tanti nemici di Tex, ma anche di qualche alleato. Un anno dopo scoprii i fumetti della Marvel, proprio quelli che in questi ultimi anni sono stati trasformati in film da Hollywood: X-Men, Spider Man, I fantastici quattro e tutti i loro cattivissimi nemici decisi a distruggere la terra ed a rendere schiavi i suoi abitanti, immaginario sempre presente nel sentire americano. Contemporaneamente si facevano largo gli italiani con le loro strisce. Su tutti Guido Crepax con la sua Valentina, procurata dagli adulti di casa, e Hugo Pratt con “La ballata del mare salato” e le storie oniriche di Corto Maltese. L’adolescenza trascorse dunque fra crociere in mari esotici e strane avventure con il marinaio di Pratt. Poi abbandonai il fumetto per una serie di anni per riscoprirlo intorno ai trenta con Dylan Dog, grazie ad una sorella minore che se ne era invaghita, fumettisticamente parlando. Di nuovo un fumetto italiano insieme alle storie post atomiche di un grande italiano perduto troppo presto: Andrea Pazienza; infine Moebius, in cui ogni vignetta è un quadro da museo. Oggi la mia personale frontiera è rappresentata da quasi tutti i fumetti che mi capitano sotto mano. Una via di fuga alla portata immediata della mia mano e del mio pensiero. Naturalmente il selvaggio West, rivisitato da casa nostra, di Tex e degli altri pards ha conservato un posto privilegiato nel mio cuore. Ancora la sensazione di libertà trasmessa da quei tratti in bianco e nero rimane per me il simbolo di un’epoca che non c’è più, dove si poteva voltare il cavallo e cambiare per sempre la direzione della propria vita. Forse per quello, nei miei ricordi, c’è tanto rimpianto per quelle tavole e per quel cavallo ormai scomparsi dietro i calendari che si accumulati nel frattempo. (Francesco d’Ayala)

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