top of page
  • Youtube
MASSIMO INVITO E LOCANDINA_3.jpg

E' ai tavolini del nostro bar dal lungo bancone, sempre aperto quando serve, che avvengo i meeting dai quali nascono le idee; nelle sere, alle luci soffuse del giardino, si compiono i breafing per decidere le “strategie”; di fronte ai camini in inverno si analizzano gli obiettivi raggiunti. Così, anno dopo anno, l' attività di una associazione culturale che cresce, in un posto che non vuole essere solo di vacanza, ma che vuole mantenere i ritmi, conservare il gusto della vita vera.

Fondere, unire, sovrapporre, pensieri, idee, ma anche culture, forme d' arte, unità fisiche, per vedere oltre, per cercare l' invisibile.

Ecco in aiuto, allora, I Quaderni del Frantoio, preziosi per entrare nel cuore dell' evento; e unica testimonianza, in questo eccezionale caso, dell' esistenza in vita-il solo tempo della durata della mostra-del grande affresco realizzato in una delle sale superiori. Il Frantoio, affacciandosi all' arte muraria, vuole essere, così,  vicino alla Chiesa della Provvidenza- in ogni senso!- ed esaltare la storia locale, proiettandola nel complesso della cultura nazionale. (Maria Concetta Monaci)

Massimo Kaufmann

a  Il Frantoio di Capalbio

 

Mostra a cura di

Pia Candinas

Testo di

Brunella Antomarini

 

Inaugurazione

Sabato 2 giugno, ore 18.00

Il Frantoio

Piazza della Provvidenza

Capalbio

 

 

L’Associazione culturale Il Frantoio di Capalbio con la sua Galleria, dirette entrambe da Maria Concetta Monaci, inaugura la nuova stagione estiva con un programma di mostre d'arte che hanno l'ambizione di rappresentare la ricerca di qualità e nuovi linguaggi artistici, all'altezza del pubblico raffinato di Capalbio. Serbatoio di tradizione, cultura e memoria locale, il Frantoio, proprio per la sua autenticità architettonica e per via dello spazio ampio e generoso di cui dispone, invita irresistibilmente qualunque artista ad accettare la scommessa lanciata dallo spazio che si trova davanti. Ma non solo, Il Frantoio è anche un luogo di vita comune e di esperienze vissute, di incontri con chi viene da lontano.

 

A cura di Pia Candinas e con un testo di Brunella Antomarini, il 2 giugno 2007, la prima mostra è del pittore Massimo Kaufmann,  nato a Milano, dove vive e lavora. Kaufmann inaugura la sua mostra a Il Frantoio dandole il senso di un evento legato all'esperienza diretta tra vita e arte. Nella settimana che precede l'inaugurazione, l'artista dipingerà dal vivo e direttamente su una delle pareti della Galleria un grande dipinto su muro. Per vederlo si passa al secondo piano della Galleria, alla quale si accede salendo qualche scala ripida con quella bella porta, mai restaurata, di un color verde che il tempo e il sole hanno reso unico.  Oltre a questo lavoro murale,  Massimo Kaufmann esporrà anche una serie di quadri, a olio e su una delle pareti principali, collocherà 25 panetti di cotone schiacciato (trovati in un’azienda di carta umbra) colorati con disegni astratti, di cui si possono vedere altri esempi, recentemente esposti in una personale della Galleria In Arco di Torino, inaugurata  lo scorso 18 aprile.

 

A seguire questo primo appuntamento pittorico sarà Peter Flaccus, artista americano, attivo sia a Roma che a New York,  e conosciuto per la sua raffinata e originale tecnica del dipinto a encausto. Testi di Alberto Abruzzese e Carlo Alberto Bucci.

Inaugurazione: Sabato, 30 giugno, alle ore 18.00.

La prossima stagione espositiva prevede Sandro Chia, Giuseppe Gallo, H.H. Lim, Daniela Monaci, Tristano di Robilant e altri.

Massimo Kaufmann a Il Frantoio di Capalbio. Un pittore che arriva dalla grigia Milano, con quadri colorati, astratti, in parte di grande dimensioni, per allestirli nello spazio, unico nel suo genere, di un vecchio frantoio, ma che per la sua bellezza possiamo equiparare ad una mega-galleria di New York o di Parigi. I giorni precedenti l’inaugurazione hanno visto l’artista  presente di persona, talvolta chino e piegato, talvolta in piedi o anche in ginocchio davanti alla parete, che dipingeva direttamente sul muro un quadro destinato “a quel muro”, a “questa mostra”, ma anche destinato a sparire nel nulla a fine mostra. Una bella ripulitura del muro bianco farà spazio al prossimo artista e ad una prossima idea di pittura. Una decisione meditata, idealmente simile ad un mandala tibetano di sabbie colorate, creato per la bellezza di un istante per poi sparire, con un soffio forte, che a sua volta colora l’aria, prima di integrarsi nel nulla. Un gesto fatto per dare all’arte il suo senso originario, al di là di idee speculative e di valore economico. Certamente, non è una provocazione mirata a chi,  di fronte ad un’opera d’arte non resiste alla voglia di possederla. Creare un dipinto effimero sul posto, ci invita a contemplare il processo creativo e contemplativo dell’artista stesso, il rapporto fra il dipingere e il tempo che scorre, oltre alla pura esperienza di percezione visiva, scissa dal solito ingombrante essere oggetto.   

 

I quadri ad olio su tela qui esposti, si distinguono invece per la loro posizione chiara e materiale. Ciò nonostante, queste immagini sembrano fatte di correnti d’aria, dirette verticalmente, attraversate orizzontalmente, ma anche a ondate che vanno da punti, cerchi e quadratini, e che sfidano una qualsiasi, rigida, geometria. Ogni ordine è disordine, a seconda dello schema mentale di ogni singolo spettatore. Se invece volessimo indovinare lo schema mentale dell’artista che guida queste composizioni, si capisce che ogni quadrato, punto o cerchio di pittura, hanno un loro valore specifico; nel loro insieme inquadrano la tela, allo stesso tempo danno l’impressione di essere infinitamente mobili, di cambiare e di andare ognuno per conto proprio. Migliaia di gocce e di punti di colore formano, non un mosaico, non un puzzle, non una citazione post-impressionista, ma un sistema logico. Il risultato è un’immagine densa, fatta di luce, e l’impressione che si ha ripetutamente, assomiglia alla visione della terra di notte, vista dall’altezza di un aereoplano.

Il terzo elemento di questa mostra è in un certo senso una sorpresa e una novità che l’artista propone allo spazio de Il Frantoio. Sulla parete principale della prima sala della Galleria sono collocati in forma di un grande quadrato 25 panetti di cotone schiacciato, scoperti per caso in un’azienda di carta umbra. L’artista acquistò subito tutti i panetti disponibili, che l’azienda aveva lasciato da parte perché considerato materiale residuo e di poco interesse. Oggi li troviamo in questa mostra, uno per uno, con disegni colorati, forti, vivaci, come se fossero usciti da una tela di Mirò.  Ma non è cosi; sembra piuttosto che Kaufmann abbia preso tanti punti e cerchi dei suoi quadri trasferendoli in grande su questi panetti. L’occhio ne viene irresistibilmente attratto, sia per la bellezza del cotone ormai indurito, sia perché si capisce che l’artista si è più che divertito, manipolandoli, a seconda del giorno e a seconda dei colori che gli scorrevano tra le mani. Un bell’ omaggio all’arte della carta e un omaggio alla gioia intima che il colore si trova a sperimentare su questo materiale insolito, quasi come una medicina che combatte le depressioni del nostro tempo. 

Infine il lavoro di Kaufmann è una pittura legata all’apparato respiratorio. Possiamo anche chiamarla la pittura dei polmoni: pompa aria, respira, passando per molteplici strati visibili e non visibili. Gli strati visibili sono segni fitti e astratti, impulsivi; quelli invisibili sono la logica, una concezione quasi matematica dell’immagine, simile alle leggi che stanno all’origine delle forme in natura. La fine di un cerchio colorato è anche il suo inizio, come lo è il limite dell’orizzonte, che spalanca e invita a vedere. Vedere  per scoprire una struttura nascosta sempre in evoluzione, invece che contemplare semplicemente un gesto compiuto; vedere nel tempo e stare in mezzo a questo tempo, anche se appartiene, con la sua intimità, al solo artista. (Pia Candinas)

MASSIMO KAUFMANN

Il piccolo gesto della pittura

 

Se il colore potesse avere una sua geometria, sarebbe nella pittura di Massimo Kaufmann. Nello spazio del Frantoio di Capalbio, che si estende in lunghezza di fronte alla porta d’entrata, i quadri appaiono come macchie uniformi di colore sfumato. Ci si avvicina e si vedono piogge di piccole macchie di colori, minuscole esplosioni che partono da ogni punto del quadro, cerchi sovrapposti su quadrati su quadrati…Guardiamo da vicino; non sappiamo da dove si entra nel quadro. Tutto il quadro anzi sembra un unico punto di entrata, ma per questo ci vorrebbe un apparato ottico gigantesco. Per il nostro, ci vuole tempo. Ci passiamo del tempo, davanti a ogni dipinto, a cercare il punto d’ingresso, la nota d’attacco. L’ampiezza della superficie non ha scoraggiato la mano ostinata del pittore, che lavora nel piccolo, tocca appena col pennello, punto per punto; il colore è pieno, la forma è invariabilmente primitiva, tonda o quadrata; e procede accumulandone strato a strato. Così succede che nessuno strato è sfondo, o lo sono tutti. La luce balza da sotto e dai margini, a cascata e a fuoco d’artificio. Decentrati, proviamo anche a vedere se per caso il quadro si guardi al contrario, dall’interno a fuori o se per caso un centro si riveli prima o poi. Ma la dinamicità tra sfondo e figura - geometrica - sposta la percezione nel tempo, come succede all’ascolto. Lo spettatore vaga per una griglia di coordinate che sente, ma non vede, ascolta il ritmo dei colori, ma non c’è melodia.

Lo stratagemma è che alla base di ogni quadro c’è un reticolato, come quello usato dai pittori rinascimentali per misurare scorci e prospettive, solo che qui viene messo in movimento dalla pittura, cioè dal colore che la produce crescendo su se stesso. Sfondo e figura, in fughe auto-simili: l’uno ripete l’altra in continui piccoli spostamenti caotici che sfondano confini. Dentro i quadrati, altri, oppure cerchi. La trama serve per sfuggire alla sua costrizione. Insofferenza anti-albertiana e anti-cartesiana. Polemica muta con i maestri che dicevano che cosa incornicia un quadro, dove comincia e dove finisce un campo visivo. Geometria del colore che mostra come una struttura si regga sul caos delle forme che produce, una dentro l’altra dentro l’altra: lo spazio descrive il processo della sua messa in forma.

Il reticolato, come la partitura musicale nell’improvvisazione, serve da base, serve per essere occultato, confuso o sfinito dalla sua ripetizione disordinata. E questo lo può fare solo il pennello: che delinea col colore e sembra fatto apposta per tradire le linee geometriche, perché al suo passaggio sopra la griglia diventano linee spesse, sfumate, storte; il pennello le ripercorre in infinite variazioni sul tema, anzi finite, perché a un certo punto la mano si ferma, l’occhio del primo spettatore, che è il pittore, scruta, si allontana, sancisce che la relazione col quadro è conclusa, che il legame è avvenuto, il pezzo musicale ha esaurito le sue variazioni, tutte quelle che in quel momento sembravano possibili; il quadro risuona da solo.

Lo stratagemma viene riprodotto su scala scultorea in panetti di cartapesta che contengono il gesto arrotondante del colore e introducono alla seconda parte della mostra: nello spazio dell’esposizione c’è una grande stanza che Massimo Kaufmann usa come tela. Ne dipinge le pareti, a tempera: ne segue l’andatura, ne ripristina possibili divisioni, inventa figure architettoniche. Apre porte e finestre virtuali. La stratificazione in profondità si porta in superficie e si espande: mentre il colore a olio si accumula in profondità e mostra i suoi strati successivi, il colore a tempera si appiattisce su quello sottostante, la visività si estende. Il processo pittorico ci investe, ci passa dietro e sopra, ci siamo presi dentro, non sta davanti agli occhi per essere analizzato, ma dovunque, perché la pittura riveli i suoi procedimenti: ci sono acquerelli dentro aperture bianche e un grande dipinto a muro inscritto dentro un rettangolo; una parete è tutta trasfigurata in pittura. La stanza è la messa in scena tridimensionale e architettonica di quell’invito a percepire l’azione del colore: ci entriamo senza avere un ingresso. Siamo presi ipnoticamente dalla pittura che ci circonda da tutte le parti, ogni parete è una variante macroscopica del piccolo gesto fatto su un solo quadratino; qui ogni parte della stanza incornicia o è incorniciata dalla ripetizione e sovrapposizione del quadrato o del rettangolo. Ci troviamo dentro a un teatro della pittura, dove la percezione è tutto lo spazio vissuto, che ci disorienta perché non siamo noi a entrare nel quadro ma è la pittura che ci chiama e ci voltiamo di qua e di là.

Questi effetti ottici e emotivi sono le trame geometriche messe in atto dai colori, come se la loro geometria propria fosse l’errore della geometria, senza il quale non ci sarebbero conchiglie, foglie, fiocchi di neve, perché spirali, triangoli, esagoni esistono solo nelle cose imperfette. L’ornamento – sottinteso pitagorico poi detto da Baltrusaitis - è la verità empirica della geometria. Accade un po’ il contrario dell’immagine digitale, in cui il risultato formale viene definito prima e poi si decidono gli elementi che lo devono produrre. Qui gli elementi sono primari. Sono loro i padroni, informazioni minime che decidono della forma finale. E’ anche il contrario del cubismo: lì la geometria assorbe le forme caotiche, qui viene assorbita dalla sua essenza ornamentale; lì si separa la forma dal colore, qui si afferma l’impossibilità della separazione.

Qui il caos del colore, l’errore del pennello che non sa tracciare linee di demarcazione e per questo è capace di riprodurre la dinamica dell’occhio, operano come ritmi cromatici e gestuali: così questa pittura interpreta le intuizioni dell’espressionismo astratto: la distruzione della forma progettata in favore della processualità che vale per se stessa, viene intesa qui come andamento che il pittore non domina, che può e vuole solo seguire, assecondare fino a quando il quadro è finito; e finisce come finisce un pezzo jazz, per esaurimento di varianti, per essersi descritto abbastanza.

La pittura si descrive, usando sia i micro-quadri di una griglia, sia il quadro pervasivo di una stanza; ci spiega com’è, con la sua lingua, perché qualunque altra, che sia metaforica come quella musicale, o simbolica come quella verbale, è insufficiente. Come Cézanne voleva mettere sulla tela la sua piccola sensazione, qui, sulla tela, ripetuto successivamente nei reticoli che riempie, c’è il piccolo gesto del colore che si lascia incorniciare, investe la cornice, e poi fugge. (Brunella Antomarini)

bottom of page