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Peter Flaccus

Tavolette bianche, purissime, come soap per le carni lievi e evanescenti dei corpi e fantasmi della poesia romantica e della letteratura fantastica. Tavolette che si potrebbero incidere come fu un tempo prima della carta e poi raschiare e di nuovo riscrivere una memoria che non deve restare scolpita nelle pietre. Sono invece il materiale di base che grazie a Flaccus si fa qualcosa ai limiti tra pittura e scultura, tra colore e calco, in un lavoro d’artista che recupera una tradizione (l’encausto), antichissima ma ancora sotto il nostro sguardo grazie a opere sopravvissute al tempo, più resistenti dell’affresco e della pittura.

Per me che mi occupo di vecchi e nuovi media, magari avendo sempre cercato di non escludere dalla loro storia e del loro ruolo il campo delle arti, la cera evoca subito – da ignorante – alcune immagini inconfondibili: la collezione di cere anatomiche del Museo “La Specola” di Firenze e le cere di Gaetano Giulio Zumbo, le maschere e statue di cera delle tradizioni popolari, e cinematografiche.

Il lavoro di Flaccus consiste in un alto grado di manualità: raschiare e incidere per colorare, opacizzare, illuminare le superfici. Gabinetto alchemico, fiamma, pentolino, tempi di cottura, temperature giuste, gesti accorti, misuratissimi, e tuttavia affidati a una parte di caso, felice o infelice, accettato o rifiutato, come attestato (certificazione che ha preso la sua parte sul fare del suo autore) dell’imponderabile, di ciò che non può essere pesato: quel quantum di tempo-spazio in cui l’azione umana resta sempre con-fusa e che, dopo l’evento che lo produce, resta misteriosamente in primo piano senza tuttavia apparire. Come il punctum della fotografia di cui parla Roland Barthes ne La camera chiara. Trasparenza invisibile di un destino dei prodotti artistici che altre tecniche della raffigurazione sembrano potere o volere celare o negare.

Cera tratta e sublimata dalle api, purissima eppure destinata a essere turbata da colori, a darsi una immagine, ad alludere alla visione e al suo consumo, ancor prima di essere messa in cornice e dentro quella cornice esser fatta disegno. Elemento naturale, intermedio tra cibo e architettura, tolto alla natura e restituito ad altra natura: un trasferimento e una trasformazione che concretizzano un oggetto infra-mondano in cui materiali organici e inorganici concorrono all’ispirazione. I supporti rivestiti di tela – su cui Flaccus spalma la cerca calda e colorata con un polso che si muove alla maniera di larghe pennellate e sta invece progettando un risultato ancora enigmatico – conservano dunque su di sé una più rilevante presenza di natura.

Le operazioni sin qui elencate, l’azzardo e precisione da cui dipendono, il fatto soprattutto di affidarsi a una pratica invece che a una teoria, a un laboratorio piuttosto che a uno studio, sono in sintonia con la ripetizione e la variazione. Invogliano a un lavoro seriale e insieme ne sono il prodotto. Cosicché le opere di Flaccus procedono in serie, adottando al loro interno il gioco – tipico dell’infanzia e del fare emotivo dei corpi, esperienziale e non sapienziale – dell’imitazione. Cosicché, proprio dall’imitazione-innovazione l’una dell’altra e di una serie rispetto all’altra, producono il loro scatto immaginifico, in tutto simbolico invece che concettuale. Sensazioni – dell’artista e del suo essere consumato – che possono nascere anche da un elemento soltanto della serie, perché le forme in esso manifeste hanno qualcosa di aperto tra le infinite stratificazioni possibili.

Ma infine quali forme? Dalle sue cornici emergono ampli spazi vuoti o volute o – in ultimo – riquadri variamente assemblati, ritmi seriali essi stessi alla maniera di un collage. Non so se sia anche in questo caso il frutto della procedura e del processo in cui le opere di Flaccus nascono, tuttavia direi che da lui venga sempre evitato il senso della chiusura e del bell’ordito, ma al tempo stesso questa sospensione di un disegno compiuto sia ottenuta attraverso una precisione persino maniacale. Una sorta di mania del formare negando: sempre in relazione alla natura delle api, ovvero alla cera come natura e insieme all’alchimia di un destino incorporato e raffreddato nella cera, raschiato e trattato in modo da stabilizzarsi nella lunga durata. (Alberto Abruzzese)

Supernova e calcinculo

 

Nel lavoro di Peter Flaccus c’è un nuovo disegno (sì, proprio nella pittura di Peter, fatta di solo e assoluto colore, senza disegno). Ed è la figura che — dopo dodici anni di encausto romano, gli ultimi dei quali passati ad ammirare i colori caldi fondersi liberamente sotto i suoi occhi — l’artista americano imbandisce sulla tavola. Sulle ampie superfici in legno realizzate quest’anno ed esposte ora a Capalbio per la prima volta, formata da riquadri o tondi di cera, spessi alcuni millimetri e ognuno contenente in sé un cerchio, ecco apparire una sorta di ellisse. Non una geometria pignola, da geometra. Ma una figura primordiale, incerta ma viva, come lo è il caos o il caso. Come tutte le cose, la protagonista dei recenti dipinti di Flaccus non nasce dal nulla. L’ellisse assomiglia molto alle forme che l’hanno preceduta e, come i cicli della natura, è possibile che in futuro torni al passato; squagliata — come la cera d’api mista a gomma che Peter sposa ai pigmenti — in un altro crogiuolo. Eppure, il nome che vorrei dare a queste felicissime opere è Supernova.

Nulla è inedito, e chi ci crede è un illuso. L’arte ha piuttosto il merito di farti scoprire qualcosa di eterno ma che non avevi mai visto nonostante l’avessi da sempre sotto il naso. Il quadro è davvero una finestra aperta.

Così è successo a me quando, l’8 maggio scorso, tornato dallo studio di Peter a piazza San Cosimato, con ancora negli occhi e nel cuore la profondità di quel colore che ti assorbe lo sguardo e l’allegria di quel giro di giostra da capogiro, ho acceso il computer e ho notato una notizia di scienze, di quelle che di solito salto. Gli astronomi di un’università della California hanno individuato la supernova più potente e luminosa mai vista prima tra 400 miliardi di stelle. Lei, l’ultima, la super delle supernove, 150 volte più grande del sole e distante 240 milioni di anni luce dalla terra, s’è lasciata ammirare dagli scienziati per 200 giorni, ora più ora meno. Non conosco la natura (elaborazioni al computer o riprese reali con cannocchiale elettronico, o quale altra diavoleria?) delle sequenze che formano il video apparso in Internet. Ma certo è che non l’avrei notato se, in quella stratosferica esplosione stellare, non avessi riconosciuto qualcosa che molto gli assomiglia: ossia il “punto di fusione”, per dirla col titolo della personale romana di Flaccus del 2004, della cera colorata e colata. Non ci sono solo le stelle nel firmamento delle similitudini dettate dalle figure che Peter fa apparire sulla tavola lasciando che la materia e il processo dell’opera seguano il loro corso. Ma, come suggeriscono i testi nel catalogo della mostra di tre anni fa alla galleria A. A. M (e ai quali rimando per la precisione dell’analisi), quei cerchi di colore posso sembrare anche «cellule, organismi, fiori, baci, buchi» (eppure, avverte Brunella Antomarini, l’artista fa in modo «che nello stesso tempo non lo sembrino»); oppure fanno venire in mente, ad Annemarie Sauzeau, «bolle di sapone, onde concentriche che si propagano, cellule, amebe, macchie, tronchi d’albero appena tagliati, esplosioni cosmiche, insomma fenomeni organici e dinamici, vivi e pulsanti».

Tutto vero, e bello. E niente di nuovo sotto al sole, per fortuna. Racconta, e favoleggia, Giorgio Vasari che Piero di Cosimo «Fermavasi tallora a considerare un muro, dove lungamente fusse stato sputato da persone malate e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli de l’aria». Vero è che, diversamente da Piero, la pittura di Peter ci riporta a uno stadio della natura che precede il suo prendere forma in bestie o paesaggi. Ma ci riporta anche a una condizione di ascolto e curiosità di fronte all’opera rispetto alla quale il pittore è il primo spettatore. Non c’è progetto, programma, strategia. Ma accompagnamento della forma nel suo farsi.

Fino a un certo punto, però, l’artista si fa prendere la mano dall’opera che sta manipolando. È, e rimane, padrone in casa sua; libero di rifondere la cera indurita e di far scomparire l’immagine. Per questo, rispetto ai quadri precedenti, negli ultimi lavori Peter ha lasciato che l’opera mostri le irregolarità del suo venire alla luce: le “bave di fusione”, i bordi sfrangiati delle forme in cera, le sgocciolature sul fondo, sempre mosso, vivo, della superficie in legno anch’essa colorata. In qualche modo, “la grande ellisse grigia con i soffioni rosa”, la “tavola dei rossi”, la “Mandorla” (tre delle opere in mostra con i nomi che gli ho dato io, come promemoria), per questa loro manifesta fisicità rimandano al “dittico bianco” della produzione precedente (ed egualmente esposto ora); quando la cera era stesa a pennello e le linee erano svolazzanti volute scavate nel fondo bianco, calcinoso come un muro mediterraneo.

Infine, l’ellisse. È un tondo schiacciato. Un cerchio in movimento. Una mandorla, tutto sommato: ricorda la geometria luminosa che contiene le figure della Madonna o del Cristo. In tutte le sue opere Peter rifiuta di essere messo in mezzo: fugge il centro della superficie e lo fa spostando, anche di poco, l’esplosione-fusione di lato, verso i bordi. Ma nelle ultime, le supernove, sul grande e frammentato formato delle tavole, accentua la dinamicità. Per creare l’ellisse, le formelle tonde e quadrangolari si sostengono e spingono l’un l’altra, a volte si fondono l’una nell’altra. Si lanciano e rincorrono in allegria, sospinte da una forza centrifuga che le spara lontano ma le tiene unite e vicino. Sembrano ragazzi sulla giostra dei calcinculo. (Carlo Alberto Buccil)

 

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