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L’architettura della mia terra

Personale di Massimo Catalani al Frantoio di Capalbio

Inaugurazione domenica 29 aprile alle 18:00

 

Il Frantoio di Capalbio si conferma protagonista sulla scena dell’arte italiana, dal 29 aprile al 31 maggio ospita la personale di Massimo Catalani: “L’architettura della mia terra”. Dipinti materici, quasi tridimensionali che riproducono con perfezione fotografica, dettagli di opere architettoniche diventate nel tempo simboli storicamente riconosciuti dell’impronta lasciata dall’uomo sul territorio, come l’architettura del periodo fascista, o quella industriale. Catalani ha iniziato il proprio lavoro sull’architettura, e in particolare sugli edifici romani,  undici anni fa con una mostra a Milano e ed una a New York, ma poi successivamente non ha più investigato la materia “Troppo poca era la distanza da quell'amore, troppo calde alcune ferite, troppo vivo il dolore per alcune cose che avevo visto”- spiega l’artista- . Ho dedicato molto di quegli anni all'architettura finché non mi sono accorto che quando si gira intorno ad una preda da cui si è predati, facilmente si finisce per azzannare ed essere azzannati. Ora torno qui a cercare di sciogliere il morso e codificarlo in un dialogo in cui ognuno possa capire le ragioni dell'altro”. Catalani si presenta al pubblico di Capalbio con  una ricerca tra architettura e paesaggio, in cui questo è concepito come un sistema attivo direttamente collegato all’azione dell’uomo e  del tempo; mentre l’architettura è da lui definita  come un abito che, fin dalle caverne, l’uomo si dà, creando forma. “L'ultimo grande sarto italiano fu Benito Mussolini. Dopo di lui ci furono città per un'altra ventina di anni – racconta Massimo Catalani-. I sarti attuali, che ormai fanno gli stilisti e mostrano “concept”, ci hanno proposto, un’architettura senza forma.” Nell’Architettura della mia terra si trova lo studio e l’amore di Catalani per il rigore e la pulizia delle linee dell’epoca fascista, dalle sagome del Foro di Mussolini alle arcate della stazione Termini. Catalani è un architetto prestato alla pittura, formazione che risulta evidente non solo nell’oggetto della sua ricerca artistica, ma anche per i supporti e per le materie che usa. Le sue opere prendono luce, colore, materia e texture dalla pozzolana romana, dal marmo bianco carrarese, dalla sabbia di Stromboli e dalla terra di Pordenone, lavorate su tavole spesse che ricordano le palanche di cantiere, pannelli di siporex (cemento alveolato), carta da parati o teli di plastica. “La poesia e le speranze dei nostri padri e nonni sono gli ultimi rintracciabili nel tessuto delle nostre città; vado con questo lavoro a cercare le ultime tracce, le ultime forme, gli ultimi fuochi, di una età dell'oro che per ora è finita e che forse i nostri figli sapranno esprimere e reinventare. Mi interessa la forma e il perché di un cornicione, di una finestra, di una balaustra, lo stagliarsi un terrazzo contro un cielo. Anche la pittura ha una sua immanenza ed è sempre andata a braccetto con l'architettura, perché le abbiamo fatte smettere?”

Undici anni dopo la mostra milanese e dieci dopo quella newyorchese che hanno visto il ritorno di ai fatti di Architettura, nel primo caso a scala cittadina, romana, nel secondo a scala nazionale, italiana, Massimo Catalani torna in scena portandola ad un pubblico al Frantoio, a Capalbio. E' passato un po' più di un decennio dal mio esordio artistico e, fino ad allora, mi sono guardato bene dal dipingere architetture. Le ultime (che erano anche le prime dipinte e sono ancora con me) erano per la tesi: 1988, Composizione. Troppo poca era la distanza da quell'amore, troppo calde alcune ferite, troppo vivo il dolore per alcune cose che avevo visto. Avevo preferito andare lontano, nelle colonie d'oltremare, dove all'orizzonte sabbioso ero libero di dare forma di paste o cipolle, galline o figure umane. L'architettura era tornata ad essere muratura, mera pasta pittorica, la mia vita scorreva più serena. Avevo così occultato il ricordo che nelle città, non ci sono solo le forme delle capanne ed è tutto maledettamente più complicato.

Ho dedicato molto di quegli anni all'architettura finché non mi sono accorto che quando si gira intorno ad una preda da cui si è predati, facilmente si finisce per azzannare ed essere azzannati. Ora torno qui a cercare di sciogliere il morso e codificarlo in un dialogo in cui ognuno possa capire le ragioni dell'altro.

Volevo troppo, lei mi ha voluto dare troppo poco, mi sono fortificato e forse posso ancora fare qualcosa. Forse lei mi vuole ancora.

La mia Italia è quella che amo, l'altra, naturalmente, quella che detesto.

Nella prima ci metto tutta le parti di città storica, della moderna solo quella che ha il coraggio o la dignità di essere qualcosa.

Una mutevole forma urbana che ha espresso caratteri unici riconducibili ad una idea di "Italianità". Ci si può ritrovare in un angolo sconosciuto e sentire di essere nel “Belpaese”. Nella seconda ci metto tutto ciò che è la negazione della prima. La città senza riconoscibilità. La città dormitorio. La città senza forma. La città con una forma posticcia. La città provinciale che scimmiotta le altre per paura di essere sé. La città omologata a tutte le altre città (sfigate) del mondo. La mia Italia è a Piazza del Campo, naturalmente. La mia Italia è, ovviamente, a Piazza Plebiscito. Entrambe le città che le circondano sono costruite su un sistema di entità urbane: una piazza, delle strade, delle vie principali, delle vie secondarie. Non c’è bisogno di cartelli per sapere dove andare.

L'amore non va d'accordo con la rabbia.

Dialogo è una delle parole chiave di questo lavoro, anzi due dialoghi. Uno legato ai concetti, di cui possiamo parlare; l'altro legato ai sentimenti che non può esprimersi per ragionamenti ma solo per forme. Forme di linguaggi o meglio di giochi linguistici in cui esprimere non è affatto la stessa cosa di comunicare. Esprimere i sentimenti è l'unica vera difesa da ogni forma di alienazione.

Linguaggio è la seconda parola chiave del gioco. Linguaggio è un sistema condiviso di segni attraverso il quale più entità danno vita ad uno scambio di informazioni o di emozioni, o tutti e due contemporaneamente.

Conoscenza è un'altra parola, la terza. Si può conoscere in vari modi, si possono leggere dei verbali o si possono vedere dei film. I primi informano, i secondi (se sono belli) fanno ridere e piangere. Il linguaggio dell'architettura attiene al secondo caso.

Il Dialogo che c'è tra Linguaggio e Conoscenza, è il gioco che mi interessa. Alcuni lo hanno chiamato "Ermeneutica" e sono sembrati noiosi. Oggi, sbattuta la faccia contro la crisi più dura che si ricordi ed all'indomani del "Grande Addormentamento" ci rendiamo conto che a qualcosa serve.

Entra in scena la quarta parola: Architettura, serviva anche Lei, effettivamente, a qualcosa. Era connaturata con la vita dell'uomo sulla terra. Il primo vivente che ragionò scelse la sua grotta per ricoverare sé, la sua donna e i suoi cuccioli. L'Uomo si è dato un abito per più di cinquemila anni, e questo abito, o meglio questi abiti hanno sempre avuto una forma.

L'ultimo grande sarto italiano fu Benito. Dopo di lui ci furono città per un'altra ventina di anni. I sarti attuali, che ormai fanno gli “Stilisti” e mostrano “Concept”, ci hanno proposto, una architettura senza forma. Design industriale di oggetto elevato a scala di città; così anziché abitarla la possiamo contemplare! Una strana civiltà che non ha linguaggio, non ha forma, non dà emozioni, non porta conoscenza. Abbiamo sempre una emergente emergenza che ci costringe a sopravvivere a qualcosa senza mai poter “architettare” la nostra vita quotidiana. Oggi si continuano a manutenere gli edifici storici per i ricchi, si continuano a costruire periferie informi per i poveri e ci si consola con pezzettini griffati, con della tecnologia privata tra della desolazione collettiva, con una lenta fuga dalle città.

La poesia e le speranze dei nostri padri e nonni sono gli ultimi rintracciabili nel tessuto delle nostre città; vado con questo lavoro a cercare le ultime tracce, le ultime forme, gli ultimi fuochi, di una età dell'oro che per ora è finita e che forse i nostri figli sapranno esprimere e reinventare. Mi interessa la forma e il perché di un cornicione, di una finestra, di una balaustra, lo stagliarsi un terrazzo contro un cielo. Dipingo l'Italia con le materie di Italia: pozzolana romana e marmo bianco carrarese, sabbia di Stromboli e terra di Pordenone. Le darò luce e ombra, forma, colore e materia.

Anche la Pittura ha una sua immanenza ed è sempre andata a braccetto con l'Architettura. Perché le abbiamo fatte smettere?

Note biografiche

Massimo Catalani nasce a Roma il 2 aprile del 1960. Cresce nella cartolibreria materna in mezzo a libri, pennelli e colori. Dopo la maturità si iscrive ad Architettura. Inizia una stagione di viaggi, letture, esperienze. Si laurea nel 1988 e l’anno seguente si iscrive all’Ordine degli Architetti di Roma. Già nella rappresentazione del progetto di tesi sperimenta degli impasti pittorici al confine tra la pittura, il modellato, la muratura d’architettura. Nel 94, neella prima personale “Natura Picta”, da Roma&Arte, a Roma, quadri appesi al muro, coloratissimi, soggetti semplici, materie sorprendenti. Uno shock per un mondo in bilico tra concettuale e minimale. Da allora ogni anno o due, una nuova esperienza, in Italia e all’estero, tra mostre e performance e sperimentazione di nuovi linguaggi.

 

L’Architettura della mia terra

Inaugurazione domenica 29 aprile alle 18

Dal 29 aprile al  31 maggio 2012

ore 18,30 — 23,00

Chiuso martedì e mercoledì

 

Il Frantoio

Via Renato Fucini 10, Capalbio GR

www.massimocatalani.com

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